Comunicare alla persona malata la condizione di terminalità

Viviamo in una società in cui la morte viene in tutti i modi negata, tenuta il più lontano possibile dalla vita delle persone, come qualcosa che non riguarda i vivi. Alcuni ne hanno paura, altri cercano di non pensarci, altri ancora non ne vogliono parlare. Ci sono situazioni però in cui non è possibile evitarlo ed è necessario confrontarsi con la realtà del fine vita, per quanto crudele e doloroso, a volte, esso sia. E’ il caso delle cure palliative e della condizione di terminalità. Voglio condividere in questo articolo alcune riflessioni maturate durante la mia esperienza lavorativa in un servizio di cure palliative.

C’è una questione su cui spesso vengo interrogata e su cui a mia volta ho riflettuto molto: comunicare o no la prognosi di terminalità al paziente. Detto diversamente, comunicare alla persona malata che sta per morire o nasconderglielo facendole vivere il tempo che le rimane senza saperlo?

I familiari di fronte alla notizia di terminalità

Mi capita di incontrare familiari spaventati, increduli, sconvolti, angosciati, tristi, impotenti. Ci sono situazioni in cui la famiglia sceglie di informare il proprio caro o è il paziente stesso a voler sapere. In altri casi invece i familiari decidono di nascondere al malato la sua condizione di terminalità. In genere appaiono molto convinti di questa scelta, credono sia la cosa migliore per tutti. Però mi chiedono “E’ giusto? Va bene?”.

Le motivazioni che portano alla decisione di nascondere lo stato terminale di malattia sono solitamente legate alla credenza di proteggere il paziente da un’ulteriore sofferenza e permettergli così di vivere l’ultimo periodo di vita più serenamente e continuando a nutrire speranza. Molti dicono “Lo conosco, si butterebbe giù”, “Se lo sapesse si lascerebbe andare”, “Lo capirà da solo quando è il momento”, “Può farsi del male, farla finita”.

Mai esprimo un giudizio in merito alla loro scelta, non credo ci sia una cosa giusta o sbagliata da fare e non sono io a poterlo stabilire. Non do consigli in merito ad una questione così delicata e intima. Quello che faccio è rispettare la loro decisione, comprendere e accogliere le loro preoccupazioni, i loro pensieri e i loro vissuti. Resto con loro e stimolo una riflessione in modo che possano confermare o mettere in discussione la loro scelta con maggiore consapevolezza.

Riflettere sulla consapevolezza della terminalità

  • È davvero un bisogno della persona malata quello di non sapere o è un bisogno dei familiari? Assistere un proprio caro che sta male mette in campo importanti vissuti emotivi e grandi difficoltà. Può capitare di sentirsi estremamente impotenti e faticare a vedere l’altro combattere contro la malattia. La fantasia che sapere che “non c’è più niente da fare” causerebbe un enorme dolore e aumenterebbe la sofferenza del proprio familiare spinge a nascondere questa realtà. Solo su questo i familiari hanno “potere”. Non potendo fermare la malattia, possono solo risparmiare quella che ai loro occhi rappresenta un’ulteriore sofferenza.

  • “Si butterebbe giù”. Certo, è verosimile credere che apprendere notizia della propria condizione di terminalità generi vissuti negativi. La prima reazione è in genere di shock e incredulità. Possono susseguirsi poi momenti di rabbia, tristezza, disperazione. Infine, gradualmente, di solito si giunge a una condizione di accettazione, caratterizzata da sollievo e in cui sono possibili anche momenti di serenità. Per approfondire il processo di accettazione della malattia puoi leggere l’articolo sulle fasi del lutto di Elizabeth Kubler-Ross. Quindi, è giusto aspettarsi un momento difficile e doloroso che, se attraversato, anche con l’aiuto di un professionista, può portare a una condizione di maggiore pace interiore.

  • Mettiamoci nei panni del paziente. Se fossimo noi a essere malati e ad avere ancora poco tempo da vivere vorremo saperlo? Come vorremo che si comportassero i nostri mariti, mogli, figli, fratelli?

  • La nostra psiche sa difendersi. Se una notizia è troppo difficile da sopportare la persona mette in atto meccanismi di difesa che rendono più tollerabile la situazione, come la rimozione o la negazione. Non è raro il caso di pazienti completamente informati della condizione medica che affermano di stare bene e sono convinti di guarire.

  • Riflettiamo sul significato della morte. Cosa è per noi la morte? Che lo vogliamo o no, così come la nascita, essa fa parte della vita. Nonostante gli sforzi e gli strumenti oggi a disposizione della medicina per allungare la vita delle persone, la nostra natura è quella di esseri mortali. Ogni fase della vita ha le sue caratteristiche, i suoi aspetti positivi e negativi. Io credo che ciascuno di noi abbia il diritto di avere piena consapevolezza in ciascun momento della propria vita. Sapere da libertà di decidere come vivere, permette di dare significato ad ogni istante.

Lascia che la vita sia bella come i fiori d’estate e la morte come le foglie d’autunno.” Rabindranath Tagore

Conclusioni

L’ intento di questo scritto era condividere le mie riflessioni sul tema della comunicazione della terminalità in base alla mia esperienza lavorativa con i malati terminali. Ho incontrato pazienti e nuclei familiari molto diversi tra loro. Ognuno con le proprie difficoltà, i propri limiti, le proprie risorse e qualità. Ognuno con il proprio unico e specifico modo di reagire e affrontare la situazione. Ognuno è stato per me occasione di formazione professionale e anche, soprattutto, straordinaria esperienza di crescita personale.

Giulia Branciforti – Psicologa

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